di Paola Formenti Tavazzani
Sembra anacronistico parlare di arte militante per Alberto Gianfreda, ma in un certo qual senso non lo è. Lungi dall’avere una valenza politica diretta, quale poteva significare negli anni 60 e 70, essa tuttavia ha una valenza che consiste nel conferimento all’opera d’arte di un compito specifico, quale cambiare l’uomo e il suo vivere sociale, il suo sentire rispetto al suo tempo. L’arte tutta in realtà è in questo senso militante, in quanto entrando in relazione con i nostri neuroni, comporta forzatamente un processo di attivazione che è tanto più ampio quanto più un’opera, grazie alle sue caratteristiche linguistiche formali, riesce ad attivare il maggior numero di sinapsi e dar vita ad un processo importante di rielaborazione. Ma in particolar modo Alberto Gianfreda, che vive un rapporto con il lavoro artistico basato su di un impegno sociale cristianamente inteso, vuole conferire al suo lavoro un ruolo di responsabilizzazione e di eticità sentito come urgente.
In tal senso l’autore conferisce alla scultura attributi generalmente dati all’architettura, laddove l’interazione con gli elementi architettonici, generalmente influiscono sulla vita degli individui e sulla loro socialità. Non è un caso infatti che A.G. sia chiamato spesso ad intervenire in spazi pubblici e a dialogare con urbanisti e architetti, che bene interpretano la sua sensibilità verso l’inserimento dell’opera nello spazio, nel contesto e nell’area urbana. Analogamente non è un caso che svariate opere dell’autore si inseriscano in spazi sacri, dove la liturgia rappresenta un fattore fondamentale per il completamento del messaggio dell’opera.
A queste note introduttive, che già caratterizzano una modalità operativa dell’artista, si aggiungono alcune importanti riflessioni che riguardano lo sviluppo del suo lavoro nel tempo e la ricerca in corso, che approda nella serie dei “Vasi” esposti nella mostra, di recente produzione. Notiamo infatti che Gianfreda accentua nel corso degli anni il grado di “fluidità”, inteso come non fissità, delle opere: da un iniziale inserimento di elementi mobili su corpi centrali statici, passa a elementi intelaiati su una trama sottostante e appoggiati su piedistalli a guisa di drappi scultorei, sistemati in modo differente ogni qualvolta l’opera viene installata. Le più recenti creazioni vanno oltre e alla modellabilità da parte dell’istallatore, egli passa alla voluta mobilità dell’opera da parte del fruitore, che può a suo piacimento ricomporre la forma in modalità ogni volta differenti. La sua ricerca si concentra sulla disgregazione di una forma primigenia e sulla sua riedizione scomposta. Egli parla in questo caso della “resilienza dell’icona”. Nella fattispecie durante la mostra di Modena intitolata “Temi e variazioni”, un attore scompone e ricompone lentamente e ripetutamente forme di vasi, uniti assieme da una intelaiatura sottostante di maglie di ferro. Una vera e propria performance in cui il movimento della ceramica unita al ferro, crea una sonorità particolare e una ritualità.
La resilienza dell’icona è una riflessione importante. Giunge in un momento in cui la scultura, classicamente intesa come forma statica nello spazio, si sente arcaica, non più dotata di quei caratteri che possono soddisfare le aspettative di un pubblico che richiede sempre di più una interattività con l’opera, una sua “costumerizzazione”, cioè un apporto personale e unico. In questo senso la resilienza dell’icona consiste nella capacità dell’opera di modificarsi ma non troppo, di rimanere riconoscibile nella sua mutevolezza. In tal modo può rimanere legata ad una tradizione di classicità senza dover abdicare verso una completa smaterializzazione e abbracciare la virtualità.
Ma la tematica della resilienza dell’icona può esser ulteriormente analizzato a confronto di un concetto affine e contrario, quello di ibridazione. Di una attualità che non è necessario sottolineare e che attiene ai campi più disparati dalle biotecnologie, alle questioni di gender, agli eclettismi delle nuove discipline, ai sincretismi religiosi. La resilienza dell’icona diventa così metafora di ciò che rimane riconoscibile in un contesto di innesti continui, di mutazioni sostanziali, in un flusso di cambiamenti che il nostro tempo smbra accelerare di giorno in giorno. Quale parte dell’icona riusciremo ad identificare nell’archivio della nostra mente? E per quanto tempo? Queste domande ci conducono al confronto con il tema del tempo.
La forzata ricucitura dei cocci è una ricerca di lenire il dolore. La distruzione dell’oggetto e la sua perdita sono troppo angoscianti. Comportano il rischio di non riconoscersi più. La rete che tiene insieme i cocci deve – donchisciottianamente – deve poter ricomporre la forma e poterci aiutare a ricordare. Un rimpianto? Una cura? O forse è la rete sottostante che diventa la vera protagonista? O è solo, ancora, un caro mandala, un semplice esercizio per ricordarci che anche noi siamo parte del flusso continuo?
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