Scultura, paesaggio, architettura

di S.Bartolena

C’è qualcosa di immenso nelle opere di Alberto Gianfreda. Una grandezza interiore, che non è certo dovuta soltanto alle dimensioni spesso monumentali dei suoi lavori; un respiro profondo, un’aura arcaica (e arcana) che non smette di affascinare. Le sculture di Gianfreda oscillano tra passato e presente, quasi fossero sempre esistite, sembrano provenire da lontano, portano echi di mondi passati eppure parlano un linguaggio di stretta attualità, collocandosi a perfezione nello spazio temporale in cui le percepiamo. Ha ragione l’artista a parlare di “time specific” più che di “site specific” per i suoi lavori: questa relazione con il tempo, il tempo dell’elaborazione e il tempo dell’esposizione e della fruizione, è fondamentale.
Poeticamente Gianfreda descrive la scultura come l’ultimo risultato, quello visibile, di un cammino: come la luce delle stelle che arriva a noi dopo un lungo viaggio. Un viaggio nello spazio e nel tempo. A pensarci, del resto, le problematiche specifiche dell’arte plastica stanno proprio qui: nella sua relazione con lo spazio e con il tempo;  questioni che l’artista affronta nel profondo, facendo precedere all’azione una fase strettamente progettuale, studiando la grammatica della scultura, approfondendone gli aspetti più propri e peculiari, le caratteristiche viscerali, a partire dalla materia e dalle sue possibilità espressive.
L’indagine sul materiale è sempre stata al centro della ricerca di Gianfreda: ferro, legno, carta, vetro, ceramica, terracotta… mescolati, lasciati interagire, messi in relazione in un complesso gioco di rimandi, di sorprendenti accostamenti tesi a ribaltare, o quantomeno a mandare in crisi, le consuetudini percettive. In una ricercata eterogeneità, le materie classiche dell’arte plastica dialogano con materiali contemporanei, utilizzati secondo una logica antiprocessuale, che potrebbe, a una prima lettura, far pensare tanto ai grandi maestri dell’informale quanto agli esponenti dell’Arte Povera e del Minimalismo: eredità importanti, che certo hanno contribuito alla formazione di molti scultori contemporanei. Si pensi ad esempio all’impiego del feltro, presente nell’ultima produzione di Gianfreda con opere profondamente suggestive, come Dove cade l’orizzonte, sorta di personalissimo omaggio a Lucio Fontana. Osservando la linea sinuosa del panno, il pensiero corre a Robert Morris, alle sue opere la cui forma deriva in via esclusiva dalla fisicità degli elementi, dalla maniera in cui la forza di gravità agisce sulla materia. Si pensi anche a Richard Serra, che nel suo celebre Splash Piece, scioglieva il piombo e lo faceva schizzare a terra, producendo lamine che, una volta solidificate, conservavano traccia dei gesti con cui erano state realizzate, o a Barry Le Va, che faceva cadere sul pavimento pezze di tessuto che, nella loro casualità, invitavano a confrontarsi con le mutabili condizioni della materia e della forma. “A volte”, scrive, a questo proposito, lo stesso Robert Morris nel suo Antiform, del 1968, “si sperimenta una manipolazione diretta di un materiale dato senza usare alcuno strumento. In questi casi le considerazioni sulla forza di gravità diventano importanti come quelle dello spazio. Il focalizzarsi sulla materia e sulla gravità si esplica in forme che non erano state progettate in anticipo. (…) Il caso è accettato e l’indeterminatezza è sottintesa”. Sta proprio qui la differenza sostanziale tra queste ricerche e l’opera di Gianfreda, l’elemento che rende molto difficile pensare alla scultura del giovane artista di Desio come a un semplice ripensamento sulle questioni aperte da questa generazione di artisti: la casualità. Dietro alle opere di Gianfreda si cela un complesso processo di studio, una fase progettuale lenta e laboriosa, che relega il caso a un ruolo comprimario, facendolo entrare in scena solo all’ultimo momento, come un deus ex machina che, invece che riportare l’ordine come vorrebbe la tradizione, dona all’opera la sua specificità. Ne sono prova le splendide Cassiopea, Andromeda e Cepheus, sculture nate da un unico processo di cottura della terracotta e del ferro: un procedimento che, come immaginabile, solidifica la terracotta in forme variabili e deforma il metallo con esiti in parte imprevedibili. La scultura, che è stata pensata, disegnata e progettata nel dettaglio, reclama alla fine la propria libertà, riprendendosi quell’autonomia, figlia del caso, che la rende unica: quasi una lotta tra istinto e ragione, tra l’artefice e la sua opera.
La mostra ospitata da Heart raccoglie nove gruppi scultorei di grandi dimensioni, alcuni esposti qui per la prima volta, che ben raccontano la fase attuale dello scultore. In questa nuova serie di lavori, la rigidità delle relazioni tra le parti che caratterizzavano la produzione precedente, cede il passo a forme più flessuose, meno statiche, che trovano nella dinamicità e nella cedevolezza dei materiali la propria forza espressiva. L’incontro di materiali diversi, inconfondibile firma stilistica di Gianfreda, scopre nuove ragioni di essere nell’uso del marmo, della terracotta, del legno e dei tessuti preziosi. Giocando con le regole della percezione, il marmo diventa stoffa, il ferro si adagia morbidamente, plasmando nuove forme, e il feltro si fa segno grafico, invadendo lo spazio. Sono sculture – sculture, si badi bene, non installazioni, perché Gianfreda è scultore puro, nel senso più profondo e più tradizionale del termine – tanto presenti e radicate nell’attualità, quanto classiche e assolute, quasi eterne, pronte a citare la dinamicità e la ricchezza di un panneggio barocco per poi tornare subito all’essenzialità di tanta plastica contemporanea.
Dopo aver lungamente riflettuto sulla scultura e sulle sue ragioni, Gianfreda sembra voler ora intraprendere l’esperienza della narrazione, recuperare un’idea di racconto, addirittura, seppur timidamente, avventurarsi in un piano autobiografico. Il suo dialogo con la materia assume, dunque, nuove ragioni, facendosi racconto. Racconto di un mondo senza confini, dagli ampi orizzonti, che gioca con le proporzioni (una costellazione catturata in un oggetto, una veste portata su un piano monumentale…) e che invita a ragionare su un nuovo tipo di paesaggio: un paesaggio al contempo naturale, architettonico, umano.




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