di Paola Formenti Tavazzani
La prima cosa, sbalorditiva, che mi ha colpito nell’opera di AG è il paradosso di dare leggerezza al marmo: il materiale più statico, solido, eterno, si frammenta per ricomporsi in una forma mutevole, sfaccettata, chiaroscurata, quasi morbida, che si appoggia dolcemente su di un sostegno a guisa di un drappo. “Via Lattea”, 2013, qui esposta è emblematica di questa sfida formale. Lo spazio circostante è movimentato da questo oggetto più che plastico, quasi architettonico. E’ qui che la classicità del lavoro di AG si collega con la contemporaneità. Il suo modulo, personalissimo, è composto di materiali di volta in volta diversi, uniti da un ordito che li tiene assemblati in modo flessibile, atto a modellarsi in forme diverse secondo la volontà di riplasmarli dell’artista. Egli sceglie materiali sempre molto classici e nobili: il marmo, la terracotta, il ferro, il legno. Ad essi lascia un taglio solitamente semigrezzo: il marmo in parte lucido in parte a spacco, il legno tagliato e non levigato o la terracotta modellata dalla pressione delle dita della sua mano che stringe la terra informe in “Dove poggio le mie mani”, 2014. L’ordito è subalterno alla funzione di tener insieme la texture, ma nel contempo deve essere gradevole, parte dell’architettura dell’insieme. Una paziente sapienza, anche artigianale, nel lavorare materiali stimolanti per l’artista, che ama provare e misurarsi con comportamenti materici differenti. Le nuove forme che si vengono così a creare assumono una valenza spaziale non più classica, ma oltremodo moderna, influenzata dalla lezione della minimal art. Le immense sculture-parete, sinuose e imponenti quali “Variabili, legno e ferro”, 2007, oppure “Limite Mobile”, 2007, sono una personalissima e ben riuscita rielaborazione di stimoli di derivazione minimal americani, filtrati da una latina attenzione al dettaglio, alla riflessione della luce, alle potenzialità costruttive dei materiali. Un’attenzione maggiormente portata verso la seduzione estetica piuttosto che al concetto originario, alla poesia rispetto all’assioma, all’ossequio della tradizione rispetto alla volontà assertiva incondizionata.
Anche il ferro battuto che avviluppa i pezzetti di marmo di “5 insiemi di Prima Materia”, 2012, è di fatto un ordito che trattiene un modulo ripetuto. La versatilità linguistica creata da AG si nota particolarmente in questo lavoro che non ha l’imponenza dei tessuti marmorei, lignei e metallici pocanzi descritti. La misura contenuta nulla toglie all’impatto forte che queste cinque piccole sculture imprimono sullo spettatore. Gradevoli e proporzionate, cadenzate lungo la parete, simili ma non uguali, queste cinque corone di spine suscitano un’emozione pari al superlativo lavoro di Mona Hatoum “A Bigger Splash”, 2009, della Collezione Olgiati. Un rimando inequivocabile ad una violenza mai superata, ad un quotidiano sempre da ricostruire, ad un concetto – quello di sacrificio – sempre necessario.
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